Omelia di Don Domenico Spagnoli per il “Te Deum” del 31 dicembre 2020

Omelia di Don Domenico Spagnoli per il “Te Deum” del 31 dicembre 2020

“In un campo ho veduto una ghianda: sembrava così morta, inutile. E in primavera ho visto quella ghianda mettere radici e innalzarsi, giovane quercia verso il sole. Un miracolo, potresti dire: eppure questo miracolo si produce mille migliaia di volte nel sonno di ogni autunno e nella passione di ogni primavera. Perché non dovrebbe prodursi nel cuore dell’uomo?” (Tagore, Miracolo). Con questo racconto del poeta Tagore, mi piace introdurre la mia riflessione in un Te Deum particolarmente difficile da declinare quest’anno, vista la stanchezza diffusa nelle persone e il tanto materiale – spesso ironico – che circola sul web e che tende a considerare il 2020 semplicemente un “annus horribilis”, un anno da dimenticare, una parentesi di sciagura e di morte. La lettura predominante provoca quasi un invocazione di necessario oblio: “scompaia presto quest’anno”, si stacchi presto il calendario da quel muro! Certo, nessuno può negare di essere stato messo a dura prova da un virus invisibile – il covid19 – che ha paralizzato il mondo e costretto milioni di persone ad un distanziamento fisico spesso disumanizzante nei rapporti e lacerante nelle morti solitarie. Per tutti coloro che in questi mesi hanno subìto un lutto, hanno temuto seriamente per la loro salute, per quanti oggi sono più soli e più poveri, deve esserci tutto il nostro affetto che sa trasformarsi in preghiera. Non dovremmo mai dimenticare le vittime di questo male, mai banalizzare la sofferenza di questi mesi.

Ma, mi chiedo: si può dimenticare che ogni tempo è visitato dalla Grazia? Si può non vedere che i tradizionali numeri, collocati sul nostro altare – preparato tra l’altro dai giovani – sono anche quest’anno luminosi? Si può arrivare a considerare quest’anno un tempo non vissuto? Ma chi ci ridarà il tempo trascorso? Si tratta di una parentesi da saltare o di una transizione necessaria? Ci si vuole convincere che si riparte dal 1° gennaio, voltando semplicemente pagina, o si deve far tesoro di un insegnamento nascosto nelle piaghe dei giorni passati?

Gioco a carte scoperte, e ritengo che dipende totalmente da noi, come ci ricorda un adagio di Sant’Agostino vissuto tra il IV e il V secolo: “«Tempi cattivi, tempi travagliati» dicono tutti. Viviamo bene, e i tempi saranno buoni. I tempi siamo noi: come siamo, così sono i tempi. «Il mondo è malvagio, ecco è cattivo, ed è amato come se fosse buono». Ma che cos’è il mondo malvagio? Infatti non è cattivo il cielo, la terra, le acque e le cose in essi presenti, pesci, uccelli, alberi. Tutte queste cose sono buone: ma gli uomini malvagi rendono cattivo il mondo”. Come vogliamo dunque reagire in questo tempo lasciandoci incattivire o umanizzare?

La condizione drammatica che abbiamo vissuto rischia di lasciarci semplicemente storditi e caricati di tensione o rabbia che può sfociare anche in una terribile violenza contro se stessi o contro gli altri, come accaduto di recente con alcune bande di giovanissimi a Roma, Bologna e qua e là in Italia; oppure si potrebbe semplicemente avere come obiettivo l’irrefrenabile “recupero” di un divertimento negato nel passato. Ma non si recupera nulla di quello che è passato! Si può solo evitare di sciupare una opportunità perché come ricorda Papa Francesco: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. (Papa Francesco, Omelia del 31/05/2020).

Se dipende da noi il modo di affrontare il futuro significa che occorre imparare a leggere la realtà per prenderci cura delle relazioni. Dobbiamo dirci che questo anno non è solo “pandemia” ma, a ben vedere, è stato anche un contenitore di doni e di Grazia. Non si dimentichi la grande solidarietà vissuta dagli italiani e, nel nostro piccolo, nella nostra Diocesi e nella nostra Città; il senso del dovere di tanti operatori della sanità, dei tanti addetti al ai beni di prima necessità, degli uomini e delle donne dello Stato e dei rappresentanti della comunità ecclesiale. Come non pensare al coraggio di tanti giovani che per amore all’umanità ferita, si sono preoccupati di portare pasti, di mantenere i contatti, di assistere a distanza le persone ammalate o in quarantena! Si tratta di storie di eroicità nel quotidiano e storie di santità nascosta! Nella nostra Comunità ecclesiale – e per quello che so nella nostra Città – si sono moltiplicate le iniziative di assistenza ai bisognosi condividendo le proprie risorse economiche, i mezzi e i viveri. Donazioni di ogni genere e persino di respiratori nelle diverse ASL in Italia.

Quanta inventiva è venuta fuori e quante nuove competenze si sono espresse nel cercare di raggiungere seppure a distanza i nostri bambini, i ragazzi o gli anziani sfruttando meglio i mezzi informatici; e in quanti modi il momento ha acceso la fantasia dell’amore nel cercare vie nuove di educazione, evangelizzazione e carità. Una immagine per tutte è quella della benedizione con la Sacra Spina dal campanile di Santa Maria: uno fra i tanti tentativi dei parroci della Città per infondere speranza alla gente e superare la tristezza e la disperazione. Ricordiamolo: Dio non vuole la sofferenza di nessuno e men che meno la morte del peccatore: noi saremo davvero sapienti se impareremo dalla vita e dalle lacrime a riconoscere il giusto valore delle cose e delle relazioni con noi stessi, con l’altro e con Dio.

Imparare a vivere con responsabilità esprimendo il meglio di noi, solo così non vivremo demoralizzati. “Demoralizzato vuol dire infatti privato (de-) di morale (dal termine latino che indicava sia il carattere di una persona sia le leggi che ne guidano l’agire libero, perché sono inscindibili: io divento ciò che scelgo e faccio). I ragazzi (ma anche noi adulti ndr) si demoralizzano quando non sono allenati a scegliere…Molti ragazzi sono de-moralizzati perché abbiamo sostituito parole come carattere, coscienza, limite, scelta… con eufemismi che riducono la morale all’emozione del momento e la realtà a un «like» senza conseguenze. I limiti non sono privazione di libertà ma il campo del suo esercizio, il perimetro della vita reale, come la gravità per i corpi: sulla Luna non siamo più liberi”. (Alessandro D’Avenia, Demoralizzati in Corriere della Sera, 26/10/2020). È dunque questo il momento di scegliere. Scegliere imparando dal limite. Scegliere che cosa e come? Propongo tre tipologie di scelta.

La prima è scegliere di ripartire dal bene per vincere il male. Il bene che c’è e che si fa non può essere dato per scontato. Tanto bene si porta avanti nel nascondimento ma a noi il compito di riconoscerlo e – se siamo credenti – di rendere grazie a Dio. Il bello e il buono vanno scovati e apprezzati per vincere la tristezza e la stanchezza psicologica di questi giorni. In questa direzione è andato anche il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che ha voluto il 29 dicembre scorso attribuire l’Ordine al Merito della Repubblica a 36 eroi civili che si sono impegnati in favore degli altri. Fra questi 21 donne e tre sacerdoti: tutti portatori di speranza in questo tempo di dura prova. Dietro queste persone vi sono i tanti di cui non parlerà mai nessuno ma che hanno creduto nel bene, cercato insieme, nella nostra Italia.

Ognuno di noi dovrebbe fare un esercizio di memoria positiva di questo anno per non sprecarlo. I segnali di speranza ci sono e possono aiutarci a ripartire meglio se lo vogliamo. Il mondo stesso ci ha dimostrato che mettendo insieme le conoscenze si può arrivare in tempi brevi (mai così brevi nella storia) a dei vaccini, che rallentando i nostri movimenti sono tornate a farsi vedere specie rare di animali quasi ormai estinte, che in questa fase di emergenza molti hanno riscoperta il senso della vita nel servizio.

Può bastare poco, fatto da tutti, per restituire vivibilità agli altri: in questo tempo ci siamo accorti di aver bisogno gli uni degli altri, che nessuno basta a se stesso, che pensare anche solo alla propria famiglia non basta, che siamo relazione e abbiamo bisogno di relazioni. Il mondo si regge proprio sulle relazioni di fiducia: la collettività si regge perché la maggior parte delle persone fa il proprio dovere e si sacrifica per ciò in cui crede e…crede nel bene.

La seconda scelta da prendere è avere cura della casa comune che è la Terra e di coloro che, con noi, ci vivono. Si tratta di scegliere di evitare gli sprechi e di aprire gli occhi sui problemi di un fratello. Papa Francesco nella memorabile preghiera in una Piazza San Pietro vuota, il 27 marzo scorso, ha richiamato un’illusione contemporanea: «Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato». (Papa Francesco, Omelia del 27/03/2020). Egli ci ha ricordato che con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli. È urgente prenderci cura dell’ambiente che è minacciato nelle sue fondamenta e cambiare quindi stile di vita, perché nessun luogo è lontano.

La Terra e il fratello hanno bisogno di cura, non possiamo chiudere gli occhi e ritenere che non sia un nostro problema. La pandemia ci ha colpito per la sua velocità di contagio che non ha confini. Anche il bene però non ha confini e se interveniamo subito sulla cura eviteremo di far sconfinare la morte. Oggi una delle parole più usate è sicurezza che deriva appunto da cura: distanza di sicurezza, dispositivi di sicurezza, manifestazione in sicurezza, mettere in sicurezza. Si tratta di una delle espressioni più abusate in questi tempi, “adatta a impianti e apparecchiature, è ora, ahimè, usata per le persone, con esiti spesso opposti: «mettere insicurezza». Perché più vogliamo sentirci al sicuro e più diventiamo insicuri? «Sicurezza» viene dal latino cura (preoccupazione, pensiero) con un prefisso privativo, «sicuro» è chi è senza preoccupazioni: spensierato. Ma la possibilità di eliminare ogni «cura» purtroppo è un’illusione che può diventare negazione (tras-curare) o ossessione (as-sicurare): invece di aiutarci a vivere ci rende meno capaci di agire nelle tempeste della vita. Non siamo macchine da «assicurare», ma uomini che si possono «rassicurare», perché le esperienze fondamentali della vita sono proprio le «perdite» di sicurezza… L’imprevedibile non chiede la «sicura» ma la «cura», che non vuol dire essere spericolati, ma avere coraggio e inventiva: la preoccupazione diventa occupazione e il pensiero riflessione” (Alessandro D’Avenia, Sicurezza, in Corriere della Sera, 16/11/2020).

Con onestà dobbiamo dirci che dovremo ripartire dai poveri e disagiati e non continuare a lasciarli per ultimi: chiunque si trovi in difficoltà è innanzitutto un uomo, e il disagio che trascuro oggi si trasformerà in problema, ingiustizia, violenza contro di me. Occorre scegliere di prenderci cura aprendo gli occhi e il cuore.

La terza scelta è quella di aprirsi al Mistero: l’uomo da solo non basta. La scienza non basta occorre umanità, la terra non basta occorre il cielo, la fede da sola non basta occorre carità e speranza e se alla fede non si affianca l’intelligenza, gli uomini diventano integralisti escludenti. La scienza e la tecnica devono cercare le strade per vincere il male ma non potranno mai dare un senso alle vittime del male, spesso causate da un potere e da un’economia non più al servizi dell’uomo. Quanto male si è fatto pur avendo i mezzi per evitarlo? Quanto male si è diffuso per colpa della superbia dei potenti attaccati alla loro immagine? Dobbiamo scegliere di aprirci ad un Invisibile al quale stiamo tutti a cuore e a cui dovremo rendere conto del bene non fatto al fratello. Di fronte al virus del male c’è il vaccino che, in chiave spirituale, è la Grazia che ci raggiunge nei sacramenti e lavora ovunque ci siano uomini di buona volontà. Contagiamo dunque con il bene!

Nelle recenti ricerche fatte su Google si è scoperto che le parole più digitate in questi mesi sono state: coronavirus, pandemia, mes, DPCM, congiunti, smart working,  lockdown, come preparare il pane, il lievito e la pizza in casa…poca ricerca su come pregare, come ascoltare Dio, come nutrire la speranza.

In questo tempo abbiamo particolarmente bisogno, però, di alzare lo sguardo e ricordarci che la debolezza e la mortalità possono essere maestre di vita, di umiltà, di collaborazione. La nostra salvezza passerà attraverso il Dio che si è fatto posto nell’umanità e che non si arrende alla nostra disumanizzazione.

La poesia forse è il linguaggio che meglio si addice a questo tempo in cui non troviamo le parole per narrare il mistero di cui abbiamo nostalgia tutti e che ci salverà. Chiudo una poesia di Mariangela Gualtieri sulla speranza dal titolo Bambina mia:

Bambina mia,

Per te avrei dato tutti i giardini

del mio regno, se fossi stata regina,

fino all’ultima rosa, fino all’ultima piuma.

Tutto il regno per te.

 

E invece ti lascio baracche e spine,

polveri pesanti su tutto lo scenario

battiti molto forti

palpebre cucite tutto intorno.

Ira nelle periferie della specie.

E al centro,

ira.

 

Ma tu non credere a chi dipinge l’umano

come una bestia zoppa e questo mondo

come una palla alla fine.

Non credere a chi tinge tutto di buio pesto e

di sangue. Lo fa perché è facile farlo.

Noi siamo solo confusi, credi.

Ma sentiamo. Sentiamo ancora.

Sentiamo ancora. Siamo ancora capaci

di amare qualcosa.

Ancora proviamo pietà.

 

Tocca a te,ora,

a te tocca la lavatura di queste croste

delle cortecce vive.

C’è splendore

in ogni cosa. Io l’ho visto.

Io ora lo vedo di più.

C’è splendore. Non avere paura.

Ciao faccia bella,

gioia più grande.

L’amore è il tuo destino.

Sempre. Nient’altro.

Nient’altro. Nient’altro.

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