31 dicembre 2018: omelia per il Te Deum

31 dicembre 2018: omelia per il Te Deum

I trecentosessanticinque rintocchi del nostro Campanone del 1547, l’esposizione del Santissimo Sacramento con l’ostensorio del 1545 e l’inno del “Te Deum” con la sua originale melodia settecentesca possono rimanere folclore oppure costituire un’opportunità. Un’occasione per ringraziare il Signore del tempo e della storia e così riflettere per riprendere il nostro cammino con maggiore responsabilità. A noi la scelta di fermarci ad una tradizione con la “t” minuscola o andare oltre: “Tradizione è conservare il fuoco, non adorare le ceneri” (Gustav Mahler) e proprio per questo vogliamo riscoprire il senso più profondo del nostro ritrovarci a pregare nell’ultimo giorno dell’anno.
Nella predicazione vorrei stasera attingere sia dalla potenza espressiva dell’Inno che dalla liturgia della Solennità e sottolineare alcune sfide da raccogliere soprattutto ascoltando l’appello del Sinodo dei Vescovi, voluto da Papa Francesco dal 3 al 28 ottobre scorso, e dedicato appunto ai giovani.
Il Te Deum è un inno cristiano, che ha avuto una sua evoluzione nei secoli, la cui redazione finale è attribuita a Niceta, Vescovo di Remesiana (Dacia inferiore1) alla fine del IV secolo. Il canto viene eseguito nelle celebrazioni importanti e questa sera è incastonato nei primi vespri della Solennità della Madre Dio, quasi a ricordare che non possiamo concludere un anno, né ripartire, se non guardando alla Donna, alla Vergine, Madre di Dio e Madre nostra. Possiamo riferirci – per fissare meglio il messaggio – alla bella immagine della “Madonna del latte” che trovate nella navata laterale della nostra Chiesa di Santa Maria Maggiore, una comunissima madre del popolo che fa riposare sul suo seno il bambino dopo averlo nutrito del suo latte. In quella semplicità si nasconde Colei che è madre di Dio, del Dio che si è volontariamente “limitato” per entrare in relazione con noi, come noi, prendendo su di sé il peso dei nostri giorni e così divinizzarli. La dimensione mariana della Liturgia di questa sera risalta anche nella Lettera ai Galati (Seconda Lettura della Messa), quando si ricorda che il Figlio è “nato da donna”: il particolare indica quel suo farsi uomo, debole, dipendente da qualcuno prima di poter esprimere tutta la sua sapienza. Tutti noi nel congedarci insomma dal 2018 potremmo partire da questa pennellata mariana e farci questo semplice esame di coscienza: come ho vissuto la mia umanità, come ho trattato la mia fragilità e la fragilità dell’altro? È stata una occasione per imparare e per donarmi oppure ne ho approfittato? Come ho trattato la donna dalla quale sono nato o con la quale sto formando la mia famiglia; come considero la donna che presta un servizio nella mia casa che assiste un mio familiare anziano? La donna infatti, nel passato, rappresentava uno degli anelli più fragili della società e, il fatto che il Figlio di Dio abbia dovuto nascere da lei, ci ricorda la dignità che sempre dobbiamo recuperare e il rispetto che ancora dobbiamo ritrovare verso la donna. Ancora oggi infatti troppo spesso ella è trattata come oggetto, come merce o come esca. Non dimentichiamo che a Vasto nel 2018 vi sono state ancora denunce di casi di violenza sulle donne2 e l’emersione di un caso di pesante abuso e ricatto su una minorenne, ad opera di una banda di ragazzi. Occorre ripartire dalla educazione all’incontro con l’altro, imparando a chiedere e a ricevere con rispetto della dignità infinita della persona, per costruire una relazione che doni vita senza mai abbruttirla. Occorre ripartire dalla cultura del rispetto che sa attingere dalla sana tradizione cristiana che riconosce la dignità fondamentale della persona che non può mai essere oggetto di violenza3. Mai. L’immagine di Maria che tiene in braccio quel Bambino ci aiuti a ricordare che siamo stati tutti in braccio ad una donna, tutti nutriti da una donna. L’Amore lo si riceve e lo si alimenta giorno dopo giorno e, su questo, vogliamo scommettere con i nostri bambini e ragazzi; su questo le istituzioni e le Parrocchie in prima linea vogliono annunciare la bellezza di un rapporto in cui solo nella libertà si costruisce il futuro: mai con gli inganni e i ricatti.
Ricominciamo dalla medicina della gratitudine per quanto abbiamo già ricevuto. La Solennità della Madre di Dio richiami un necessario affidamento a Colei che nella sua piccolezza è stata esaltata al di sopra degli Angeli e ci fa vincere il male: “una gratitudine struggente, che, partendo dalla contemplazione di quel Bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia, si estende a tutto e a tutti, al mondo intero. È un “grazie” che riflette la Grazia; non viene da noi, ma da Lui; non viene dall’io, ma da Dio, e coinvolge l’io e il noi»4. Abbiamo tutto quello che ci occorre per superare le prove ricominciando dalla gratitudine; chi non sa apprezzare il bene che ha sarà sempre insoddisfatto con le mille pretese verso sé e gli altri. Eleviamo a Dio il rendimento di grazie per l’anno che volge al termine riconoscendo che tutto il bene è dono suo.
Ancora a partire dal Te Deum, ci fa bene ricordare che la nostra vita sulla terra ha bisogno di essere salvata, la stessa Terra ha bisogno di essere salvata. L’organizzazione metereologica mondiale nel 2018 ha lanciato l’ennesimo allarme sulla concentrazione di anidride carbonica: occorrono cambiamenti drastici per evitare che la temperatura mondiale salga di ulteriori 2 gradi nei prossimi 12 anni. Davvero hanno senso i versetti: «Salvum fac pópulum tuum, Dómine, / et bénedic hereditáti tuæ/ Et rege eos, / et extólle illos usque in ætérnum » (traduzione letterale: Salva il tuo popolo, Signore, e benedici la tua eredità/ e guidali e sorreggili in eterno). C’è bisogno insomma che Qualcuno ci faccia capire il di più per cui siamo fatti, il futuro che va costruito insieme, l’infinito che ci attrae e che non può esaurirsi nel tempo. Occorre essere salvati anche da noi stessi, dal nostro egoismo, dalla presunzione, dal ritenere che questo mondo sia solo “per me e per il mio piacere”. È necessario essere salvati dall’autodistruzione ascoltando una Parola che non è modellata sull’uomo come ricorda la Lettera ai Galati: “Vi dichiaro dunque, fratelli, che il Vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo, infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,11-12). Insomma per essere tirati fuori dalle nostre piccinerie, che sembrano sabbie mobili, abbiamo bisogno che qualcuno ci afferri dall’esterno: una Parola altra, quella di Dio, che viene a ridarci speranza e vigore per vivere da uomini e donne responsabili visto che dovremo rispondere a Dio di come abbiamo trattato noi, gli altri e l’ambiente. Il Vangelo nutre la vita di “signorilità” che indica uno stile diverso attraverso il quale si possa imparare a vivere considerando ciò che davvero dona vita senza illuderci di ciò che schiavizza promettendo felicità a buon mercato, lasciando dietro sé le conseguenze dello sballo: una scia di morte. Che cos’è il Vangelo se non una Via in cui la Verità di Gesù si rivela come Vita. Il Vangelo combatte tutto ciò che è morte e vuole travestirsi di vita, tutto ciò che non è verità e che inganna, promettendo quanto non può dare. Permettetemi di spendere una parola sugli inganni che catturano i nostri giovani e che trovano noi complici a causa di una certa passività. Come si può tacere di fronte a chi vuole promettere la felicità attraverso “l’evasione” e vuole far passare la cultura in cui tutto si deve/può provare nella vita? Come si può non ricordare che l’uso di alcool o di sostanze stupefacenti di ogni genere sono dannose per i nostri ragazzi e giovanissimi, ancora in età evolutiva? Un cervello di un ragazzo/a proprio perché in fieri è più vulnerabile e mostrerà ben presto in sé quelle tracce che lo porteranno all’assuefazione. Come non richiamare l’attenzione su quelle dipendenze che svuotano di energia e tolgono la capacità di concentrazione e soprattutto la forza di vivere la realtà nella sua problematicità. Il Vangelo ci aiuta a vivere la nostra complessità senza fuggire, senza evadere ma rimanendo inchiodati alla nostra storia insieme a Colui che è rimasto inchiodato a noi: il Crocifisso. Una storia in cui l’eterno – lo abbiamo ricordato in questi giorni del Natale – è entrato nel tempo. La terapia? Far scoprire ai ragazzi la gioia del dono di sé. A Betlemme «…il “per sempre” è versato nel “quotidiano”: ogni dettaglio diventa via per una vita più grande lì contenuta, ma che va liberata: “Dio si fa bambino e servo. Questa è la via del rinascere: ricevere e servire. La vita “per sempre” è solo la vita “sempre per”, ogni giorno…Ho trovato un amore che mi libera dall’ansia del pretendere vita a pugni chiusi, invece di attendere, con mani aperte di riceverla. Ho trovato un amore che mi libera dalla fatica di contendere la vita agli altri invece di tendere mani gentili come si fa con un bambino appena nato. “Vita per sempre” è potermi sentire «sempre amato», in ogni istante e circostanza, da un amore mai stufo di me e contagioso, perché mi educa a diventare, con i miei limiti, “sempre per” gli altri»5
In questo 2018 abbiamo senz’altro percepito la precarietà di una Italia che non è stabile. L’immagine più eloquente è senz’altro quella del ponte Morandi crollato il 14 agosto scorso causando 43 morti. Quella tragedia è emblema di un crollo di fiducia nel futuro e nelle istituzioni. Eppure, la maggior parte delle persone compie il proprio dovere ogni giorno, occorre semplicemente perseverare e seminare speranza attraverso l’educazione concimata dall’esempio, innanzitutto in famiglia. Abbiamo noi per primi questa testimonianza da dare: il nostro dovere, fatto con coscienza, ripaga di quella gioia nel lasciare dietro di sé una scia di vita. L’impegno può risultare faticoso e gli ostacoli sembrano tanti, visto che la mediocrità aggredisce tutti i settori e vuole alzare sempre più la voce. Ma noi non ci lasceremo intimidire. Vogliamo riconoscere che ci sono tanti giovani seri, educati, impegnati nel bene, generosi nei servizi nelle Parrocchie e nella Società civile; abbiamo anche un ricambio buono di giovani professionisti ma la tentazione di adeguarsi ad una mentalità opportunistica è forte. La tentazione di lasciarsi trasportare dal vuoto è piuttosto diffusa e molto più visibile e rumorosa. È quella a cui cedono i ragazzi che non sanno gioire del bene e che non conoscono altra strada per il divertimento che quella di distruggere, con il vandalismo, il bello e il buono che li circonda, come continua ad accadere nella nostra Città persino in occasione del Presepe vivente. Un allarme sociale che richiama tutti noi adulti ad allearci con i giovani che seguiamo perché possano contagiare altri a crescere in tutte le dimensioni della vita, anche attraverso un divertimento sano.
Il 2019 offrirà motivi di speranza per chi confida in quello sguardo di Dio che cerca l’uomo. Dio cerca l’uomo onesto per continuargli a sorridere e per confermarlo nella via della Vita, anche quando altri sguardi volessero fermarlo. In questa prospettiva comprendiamo la benedizione augurale che, all’inizio dell’anno civile, la Chiesa invoca con le parole del Libro dei Numeri: “Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace” (Nm 6,25-26). “Risplendere” in ebraico richiama anche la parola “sorriso”. Insomma il sorriso di Dio è la carica più bella dell’anima per continuare ad andare ancora verso la mangiatoia di Betlemme, imparare a farsi cibo buono per i fratelli: quel nome posto sugli israeliti ormai appartiene a tutti gli uomini perché è il nome Gesù che significa appunto “Dio salva”. Tutti siamo raggiunti – anche attraverso le vie più misteriose – da questo Dio che salva; occorre semplicemente fidarci di ciò che la Vita con la “V” maiuscola – e nessun altro surrogato- può donare, insegnare, affidare alla nostra esistenza perché ci sia un futuro per noi e per gli altri. Un futuro che addirittura abbia il sapore dell’eternità.
Chiudo con una preghiera di un autore ignoto:

Stavo rimpiangendo il passato

e temendo il futuro.

Improvvisamente il mio Signore parlò:

“Il mio nome è «Io sono»”.

Fece una pausa.

Attesi.

Dio continuò:

“Quando vivi nel passato

con i tuoi errori e rimpianti,

è duro.

Io non sono lì.

Il mio nome non è «Io ero».

Quando vivi nel futuro

con i suoi problemi e timori,

è duro.

Io non sono lì.

Il mio nome non è «Io sarò».

Quando vivi in questo momento

non è duro.

Io sono qui.

Il mio nome è «Io sono»”.

Omelia per il Te Deum del Parroco Don Domenico Spagnoli
Parrocchia di Santa Maria Maggiore Vasto – 31.12.2018

Madonna del latte, XVIII sec. Chiesa di Santa Maria Maggiore in Vasto

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