Cammino di Fraternità a Chieti: la prolusione di mons. Parmeggiani

Cammino di Fraternità a Chieti: la prolusione di mons. Parmeggiani

Prolusione all’inizio del XXIV Cammino Nazionale di Fraternità di S.E. Mons. Mauro Parmeggiani Assistente Ecclesiastico confederazione Confraternite diocesi di’Italia
Chieti, Teatro Auditorium “Supercinema”

SOCIETA’ E FAMIGLIA – IL RUOLO E IL CONTRIBUTO FORMATIVO DELLE CONFRATERNITE

Eccellenza Reverendissima, illustri autorità, Signor Presidente della nostra Confederazione, cari Confrati!

Il tema scelto per questo nostro XXVI Cammino di Fraternità ci chiede di riflettere sul come stare nella società e nella famiglia, in quanto Confraternite, per offrire un contributo che sia formativo.

Traducendolo in una domanda potremmo leggere il nostro tema così: come possiamo contribuire, in quanto Confraternite, ossia Associazioni di fedeli, di cristiani e non semplici corporazioni… affinchè società e famiglia – che è la prima cellula della società – possano superare le fragilità che tutti constatiamo e viviamo in questo momento per invertire un diagramma che pare solo negativo, in decrescita permanente rispetto a un passato dove vivevamo in una società profondamente intrisa di cultura cristiana e dove la famiglia reggeva e sosteneva la medesima società?

Che società e famiglia vivano difficoltà non sono segreti. Gli ultimi Pontefici ma anche i Vescovi non hanno mai cessato e non cessano di ricordarlo. E basta poco per costatarlo anche se che qualcuno ce lo debba indicare…

Circa la società è stata definita liquida, senza punti di riferimento sicuri. La cultura del relativo – dove tutto è vero e nulla è vero – pervade molti dei suoi ambiti se non tutti.

Papa Francesco, fin dalla sua prima e programmatica Esortazione Apostolica – l’Evangelii gaudium – ha presentato bene le sfide che pervadono il nostro mondo attuale. Il Papa, intendiamoci, non vuol fare – lo scrive lui stesso al n.51 – una lettura sociologica, dettagliata, completa sulla realtà contemporanea ma utilizzando le Parole del Beato Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam, esorta tutte le comunità, e quindi anche noi, ad avere una “sempre vigile capacità di studiare i segni dei tempi”, fare discernimento sulla realtà nella quale viviamo, per poi giudicare ed agire onde evitare che rimanendo nella logica – che per noi è un tarlo – del “si è sempre fatto così” non ci accorgiamo di come il mondo sta cambiando e si stanno innescando processi di disumanizzazione che come abbiamo sempre fatto, siamo chiamati anche oggi a contrastare insieme a tutta la comunità cristiana. Papa Francesco spesso dice che più che un epoca di cambiamenti stiamo vivendo un cambiamento d’epoca.

Papa Francesco scrive che “L’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi” (EG, 52). E mentre dobbiamo lodare – dice – i progressi che contribuiscono al benessere delle persone, per esempio nell’ambito della salute, dell’educazione e della comunicazione, non possiamo dimenticare che sul nostro pianeta la maggior parte delle donne e degli uomini vivono una quotidiana precarietà con conseguenze funeste e timore, disperazione colpiscono il cuore anche di quanti vivono nei cosiddetti paesi ricchi come è l’Italia.

Personalmente, ritengo che in questi anni, stiamo toccando con mano la precarietà della nostra società: il diritto alla salute è continuamente messo in crisi da tagli economici che non permettono che vi si acceda; circa l’educazione già da alcuni anni diciamo di essere in “emergenza educativa”. La comunicazione sicuramente ci ha messo in rete ma sappiamo bene anche quali e quanti siano i pericoli della rete: l’isolazionismo che essa vuole creare nei rapporti reali tra gli uomini e dettare ai singoli i pensieri di qualcuno, i gusti di qualcuno per cui tale tipo di comunicazione globale più che per informare, mantenere in relazione, crea dei consumatori di prodotti che fanno altalenare l’economia a seconda di quanto ci viene trasmesso.
Il forte calo demografico mette in crisi i nostri modelli di società. L’arrivo in Italia di tanti immigrati e ormai grandi numeri di loro sono nati qui ed è sicuramente necessario riconoscere loro i diritti-doveri di tutti i cittadini italiani.

Il Papa sottolinea anche come la nostra società sia a rischio di spegnimento della gioia di vivere, dice che crescono mancanza di rispetto e violenza, l’inequità diventa sempre più evidente. “Bisogna lottare per vivere – scrive sempre in EG –e, spesso, per vivere con poca dignità”. In Evangelii gaudium con una serie di “No” che possiamo rileggere brevemente ci ricorda quali sono le caratteristiche di questa società nella quale viviamo. E non vi viviamo come chi assiste dalla finestra quanto accade nella piazza sottostante la sua casa… ma vi viviamo dentro e forse, anche inconsapevolmente, anche noi contribuiamo a renderla com’è.

Papa Francesco dice che il comando “non uccidere” ha posto un limite chiaro al valore della vita umana ma oggi è necessario dire no a tanti modi di uccidere.

Egli dice “No a un’economia dell’esclusione e della inequità”. Non è possibile – è un concetto che ripete spesso – che non faccia notizia il fatto che muoia assiderato un anziano ridotto a vivere per strada, mentre lo sia il ribasso di due punti in borsa… Questo – dice – è esclusione! Non si può tollerare che si getti il cibo mentre c’è gente che muore di fame… “questo è inequità”.

In questo clima dove il potente mangia il più debole la nostra società conta tantissime persone senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. L’essere umano lo si usa poi si scarta. Il Papa denuncia quella che lui chiama “cultura dello scarto” che addirittura viene promossa. E così, oggi, gli esclusi non stanno ai margini ma proprio “fuori” dice il Papa dalla società.

Papa Francesco smaschera poi quella che in molti definivano la teoria della “ricaduta favorevole” che presuppone che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Se chi detiene il potere fosse buono forse sarebbe vero ma in realtà constatiamo che non è così. Ed in tal modo, dice il Papa, si è globalizzata la “cultura dell’indifferenza” che nemmeno ci fa sperimentare il dolore davanti al dramma degli altri, ci siamo assuefatti, a causa della cultura del benessere ci siamo come anestetizzati davanti ai drammi del mondo a meno che non ci tocchino proprio da vicino, vicino… E così le nostre uniche ansie nascono se non abbiamo ancora comprato quanto ci propone il mercato e non rimaniamo nemmeno più scossi se pressoché ogni giorno sulle nostre coste muoiono immigrati o nelle nostre città e periferie tanti vivono in povertà sempre crescente.

Il Papa vede la radice di tutto questo nell’idolatria del denaro! Che ci fa dimenticare come dietro alla crisi economica che viviamo vi è la negazione del primato dell’essere umano. La nostra società è dominata da una economia “senza volto e senza uno scopo veramente umano”. E così alcuni sono sempre più ricchi e altri – la maggioranza – sempre più poveri. Ciò che conta è la speculazione finanziaria. L’uomo non interessa più. Ed inoltre la corruzione, l’evasione fiscale egoista hanno assunto dimensioni mondiali. E tutto, anche l’ambiente in cui viviamo, viene fagocitato dagli interessi di mercato.

Il Papa dice “no” a un denaro che governa invece di servire. E mette in guardia dal conseguente rifiuto di Dio e dell’etica che la si avverte come minaccia perché relativizzerebbe il potere e il denaro. E anche Dio in questo contesto diventa pericoloso, anche la fede e la religione sono da mettere da parte, accantonare perché la legge dell’amore che Dio ci ha insegnato ci pone fuori da queste dimensioni. Siamo in una società che ha dimenticato le parole di San Giovanni Crisostomo: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. Il Papa, così, chiede che la politica si metta a servizio dei poveri e noi ritorniamo a fare non una politica politicante, quella con la “p” minuscola dei favori, degli scambi, ecc. ma quella – come ricordava all’AC il 30 aprile u.s. – con la “P” maiuscola ossia che si interessa del bene della polis in generale, del perseguimento del bene comune.

In questo clima culturale e sociale il Papa dice “No” all’inequità che genera violenza. Chi è escluso dal sistema, prima o poi reagisce, e reagirà con una forza difficile da controllare e governare.

Tra le sfide culturali attuali ci sono gli attacchi alla libertà religiosa. In alcuni paesi verso i cristiani l’odio e le persecuzioni crescono sempre più.

Con la crisi delle ideologie si è caduti in un relativismo che produce indifferenza verso tutto e tutti e questo danneggia Chiesa e società. Il Papa scrive saggiamente: “Riconosciamo che una cultura, in cui ciascuno vuole essere portatore di una propria verità soggettiva, rende difficile che i cittadini desiderino partecipare ad un progetto comune che vada oltre gli interessi e i desideri personali”. Potremmo continuare ma mi pare che abbiamo già detto abbastanza.

Forse, prima di passare in rassegna come sta la famiglia, occorrerebbe spendere una parola sui giovani.

In Italia il loro numero si va riducendo per una crisi demografica nella quale già da diversi anni siamo colpiti. Per i rapidi cambiamenti e la complessità dei fenomeni culturali e sociali che vivono sperimentano una fluidità e incertezza mai sperimentata in precedenza. Sono spesso insicuri circa il loro futuro lavorativo. La cultura scientista, spesso dominata dalla tecnica, sembra aprire infinite possibilità, ed invece tra i giovani paiono moltiplicarsi forme di tristezza e solitudine. Anche i giovani sono vittime della cultura dello scarto e addirittura vivono in un ambiente sempre più minacciato per il futuro… Vivono in società sempre più multiculturali e multireligiose. Per la trasmissione della fede è un problema ma può essere anche una opportunità di confronto per scegliere e imparare la cultura dell’ascolto, del rispetto, del dialogo.
I giovani si relazionano diversamente dai loro genitori e nonni con gli altri, hanno altri bisogni, sensibilità. E pur desiderando essere protagonisti della loro vita e del loro futuro spesso rinunciano alla fatica, a parte coloro che hanno un contesto sociale e famigliare che li circonda e li stimola con l’offerta di esperienze di senso, di relazioni e valori fatte anche prima della giovinezza altri – e non sono pochi – sono passivi, mancano di fiducia in se stessi e nelle loro capacità hanno una eccessiva preoccupazione per la loro immagine e si conformano facilmente alle mode del momento.

Hanno bisogno di figure adulte di riferimento. Figure vicine, credibili, coerenti e oneste e luoghi ed occasioni per mettere alla prova la loro capacità di relazione con gli altri (qui vedo già un campo che si aprirebbe per le Confraternite per dare spazio ai giovani, soprattutto nell’ambito della carità concreta, per sperimentare se stessi). I giovani cercano figure adulte di riferimento che diano loro sintonia, sostegno, incoraggiamento e aiuto per riconoscere i limiti ma senza far pesare il giudizio.

Purtroppo i genitori e la famiglia hanno rinunciato a farsi sentire, sono assenti oppure iperprotettivi o impositivi al punto da generare nei giovani il rifiuto di ogni loro proposta rendendo i figli ancora più fragili e ossessionati dalla paura di sbagliare.

I giovani cercano poi anche figure di riferimento alla pari con le quali confrontarsi, apprendere senza tensioni ed ansia ruoli ed abilità, cercano un affettività vera anche se non sono stati educati ad essa.

Hanno poi sfiducia verso le istituzioni ed anche verso la Chiesa nel suo spetto istituzionale. La vorrebbero più vicino alla gente. E tutto questo mentre – leggiamo nel documento preparatorio al Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale” “l’appartenenza confessionale e la pratica religiosa diventano sempre più tratti di una minoranza e i giovani non si pongono ‘contro’, ma stanno imparando a vivere ‘senza’ il Dio presentato dal Vangelo e ‘senza’ la Chiesa, salvo affidarsi a forme di religiosità e spiritualità alternative e poco istituzionalizzate o rifugiarsi in sette o esperienze religiose a forte matrice identitaria”.

Vivono poi in un mondo virtuale ma che ha effetti anche molto reali con grandi opportunità ma anche grandi rischi. Oggi ormai il nostro mondo è condizionato da relazioni tecnologicamente mediate, lo si voglia o no…

Circa le scelte fanno molta fatica. Sono sempre in ricerca di opzioni reversibili. Papa Francesco li invita a rischiare anche se dovessero sbagliare ma faticano… La loro condizione di precarietà anche se Gesù affascina li rende molto bloccati nel compiere scelte.

Noi, da parte nostra, dobbiamo dar loro maggior spazio. Nel documento preparatorio al Sinodo dei Vescovi già citato leggiamo: “Se nella società o nella comunità cristiana vogliamo far succedere qualcosa di nuovo, dobbiamo lasciare spazio perché persone nuove possano agire”.

Dobbiamo ora guardare alla famiglia.
La famiglia che vive in questo contesto e che attraversa una crisi culturale profonda – sono sempre parole di Evangelii gaudium – come tutte le comunità e i legami sociali. “Nel caso della famiglia, la fragilità dei legami diventa particolarmente grave perché si tratta della cellula fondamentale della società, del luogo dove si impara a convivere nella differenza e ad appartenere ad altri e dove i genitori trasmettono la fede ai figli. Il matrimonio – continua il Papa – tende ad essere visto come una mera forma di gratificazione affettiva che può costituirsi in qualsiasi modo e modificarsi secondo le sensibilità di ognuno. Ma il contributo indispensabile del matrimonio alla società supera il livello dell’emotività e delle necessità contingenti della coppia… non nasce dal ‘sentimento amoroso, effimero per definizione, ma dalla profondità dell’impegno assunto dagli sposi che accettano di entrare in una comunione di vita totale’.

L’individualismo esasperato tipico della cultura postmoderna snatura i legami familiari e finisce per considerare ogni componente della famiglia come un’isola, facendo prevalere, in certi casi, l’idea di un soggetto che si costruisce secondo i propri desideri assunti come un assoluto (Amoris laetitia, 33) e così l’isolamento, l’indifferenza reciproca all’interno delle famiglie genera divisione, aggressività. I ritmi stressanti della vita e del lavoro non favoriscono poi la famiglia e la possibilità di fare scelte permanenti.

La famiglia spesso diventa un luogo dove si esercita una libertà sbagliata dove si confonde la vera libertà con l’idea che ognuno giudica e decide come gli pare, come se al di là degli individui non ci fossero verità, principi che orientino, come se tutto fosse uguale e si dovesse permettere qualsiasi cosa. In questo contesto – scrive il Papa in Amoris laetitia, un impegno di esclusività e stabilità finisce per essere distrutto dalla convenienze contingenti o dai capricci della sensibilità. Si teme la solitudine e si cerca uno spazio di amore e fedeltà, ma nello stesso tempo cresce il timore di essere catturati da una relazione che possa rimandare il soddisfacimento delle aspirazioni personali.

Davanti a tutto ciò che contributo possiamo dare noi, come Confraternite?

Innanzitutto quello della testimonianza di fede e di carità!
Ma mi domando:
possono le Confraternite – oggi – dare ancora testimonianza di fede e di carità nella famiglia e nella società?

E come  fare a dare tale testimonianza?

1) Rispondendo alla prima domanda, il Papa pare dirci che è possibile.

In Evangeli gaudium Papa Francesco dedica alcuni numeri (dal 122 al 126) alla “forza evangelizzatrice della pietà popolare”.
Riprendendo e riproponendo concetti sui quali anche il Beato Paolo VI, al n.48 dell’Esortazione Apostolica Evangeli nuntiandi, nel 1975, aveva insistito parlando della pietà popolare, della religione di popolo più che di una religiosità popolare…

Papa Francesco in EG dice che “ogni popolo è il creatore della propria cultura ed il protagonista della propria storia. La cultura è qualcosa di dinamico, che un popolo ricrea costantemente, ed ogni generazione trasmette alla seguente un complesso di atteggiamenti relativi alle diverse situazioni esistenziali, che questa deve rielaborare di fronte alle proprie sfide… – e aggiunge che – Quando in un popolo si è inculturato il Vangelo, nel suo processo di trasmissione culturale trasmette anche la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza dell’evangelizzazione intesa come inculturazione. Ciascuna porzione del Popolo di Dio, traducendo nella propria vita il dono di Dio secondo il proprio genio, offre testimonianza alla fede ricevuta e la arricchisce con nuove espressioni che sono eloquenti. Si può dire che «il popolo evangelizza continuamente sé stesso». Qui riveste importanza – continua Papa Francesco – la pietà popolare, autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio”.

Ma il Papa aggiunge anche: “Si tratta di una realtà in permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista”.

E a mio avviso è proprio qui il problema: nelle nostre Confraternite si lascia che sia lo Spirito Santo il protagonista? Oppure prevale il “si è sempre fatto così…”, la tradizione con la “t” minuscola per cui abbiamo perso la forza evangelizzatrice? Giungendo addirittura a compiere riti, celebrazioni, di cui nemmeno più noi riusciamo a coglierne il significato profondo? (es. Ombrellone capitolare alla processione della Madonna di Quintiliolo).

Un po’ di colpe le abbiamo sicuramente anche noi Pastori che abbiamo per molti anni, dopo il Concilio, come un po’ sottovalutato la pietà popolare ed anche la realtà delle Confraternite, la loro forza evangelizzatrice nella quale invece, per grazia di Dio crede tantissimo Papa Francesco che anche durante l’ultima Assemblea dei Vescovi italiani, nel maggio scorso, parlando con noi Vescovi a braccio dell’evangelizzazione dei giovani, della famiglia, ecc. ha citato per ben due volte le Confraternite. Esse, infatti, se ben orientate, se rispondenti a quelle “tre chiamate” che sia Papa Benedetto che Papa Francesco ci hanno consegnato affidandoci le parole: “Evangelicità, ecclesialità, missionarietà” possono ancora fare molto.
Un po’ di colpe le ha una catechesi che forse non ha saputo curare la pietà popolare e rinnovarla alla luce dello Spirito a seconda del cambiamento culturale della famiglia e della società. Una catechesi soprattutto riservata all’età dei sacramenti dell’IC, con scarso se non nullo coinvolgimento della famiglia e con una impostazione scolastica da scuola di “terza categoria” senza capacità di ascolto dei ragazzi, dei loro genitori nel mutare degli anni… di reimpostarci in una società cambiata, non in un’epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca!
Il Papa scrive sempre in EG al n.123: “In alcuni momenti guardata con sfiducia (la pietà popolare), è stata oggetto di rivalutazione nei decenni posteriori al Concilio”. E personalmente ritengo che anche in Italia ciò si sia e continui a realizzarsi – pensate ad esempio alla nascita della nostra Confederazione, a come la CEI ha dotato di modelli di statuti queste nostre realtà -, come in esse siano presenti quegli elementi che aiutano la trasmissione della fede: la relazione, la prossimità, il senso di appartenenza, l’ascolto del Vangelo e la catechesi, la liturgia, la preghiera, la carità fattiva. E come addirittura i Vescovi scelgano uno di loro come vostro Assistente… è segno di grande attenzione e promozione pur sapendo che occorre sempre fare di più per passare da Confraternite fatte di tradizioni con la “t” minuscola a Confraternite che hanno a cuore la passione per trasmettere il Vangelo lasciando plasmare la loro testimonianza – ossia il loro modo di essere nel mondo, nella società e nella famiglia – dallo Spirito e così diventare realmente una vera «spiritualità incarnata nella cultura dei semplici». Non vuota di contenuti, bensì capace di scoprirli ed esprimerli più mediante la via simbolica che con l’uso della ragione strumentale, per giungere ad un atto di fede che accentua maggiormente il credere in Deum che il credere Deum. Se fosse così – continua Papa Francesco in EG -, allora anche la pietà popolare sarebbe «un modo legittimo di vivere la fede, un modo di sentirsi parte della Chiesa, e di essere missionari»; porterebbe con sé la grazia della missionarietà, dell’uscire da sé stessi e dell’essere pellegrini: «Il camminare insieme verso i santuari e il partecipare ad altre manifestazioni della pietà popolare, portando con sé anche i figli o invitando altre persone, è in sé stesso un atto di evangelizzazione» – dice il Papa – con una forza missionaria forte che il Papa ci invita a non coartare né pretendere di controllare!
Il Papa scrive al n.125 che “Chi ama il santo Popolo fedele di Dio non può vedere queste azioni – ossia le espressioni della pietà popolare – unicamente come una ricerca naturale della divinità. Sono la manifestazione di una vita teologale animata dall’azione dello Spirito Santo che è stato riversato nei nostri cuori (cfr Rm 5,5)” e aggiunge al n.126: “Nella pietà popolare, poiché è frutto del Vangelo inculturato, è sottesa una forza attivamente evangelizzatrice che non possiamo sottovalutare: sarebbe come disconoscere l’opera dello Spirito Santo. Piuttosto, siamo chiamati ad incoraggiarla e a rafforzarla per approfondire il processo di inculturazione che è una realtà mai terminata. Le espressioni della pietà popolare hanno molto da insegnarci e, per chi è in grado di leggerle, sono un luogo teologico a cui dobbiamo prestare attenzione, particolarmente nel momento in cui pensiamo alla nuova evangelizzazione”.
Tuttavia quando penso alla forza evangelizzatrice della pietà popolare mi viene anche in mente quanto spesso le nostre forme di pietà popolare diventano più attrazione turistica, folkloristica che evangelizzante e così scarsamente incisiva sulla cultura, sulla società e sulla famiglia.
Mi ha colpito molto, qualche domenica fa, in un servizio su Rainews 24 che mostrava alcune meravigliose cappelle sparse in un bosco intorno al Santuario di Varallo (mi pare) dove ci sono tantissime statue a grandezza d’uomo che ripercorrono i misteri della Passione e una critica d’arte che li presentava non tanto come luoghi di fede, pellegrinaggio, messaggio cristiano… ma come semplici musei all’aperto…
Ecco perché per essere testimonianza di fede e di carità nella famiglia e nella società non possiamo permettere di ridurci a museo o a fatto folkloristico!
E qui, dunque, dobbiamo tornare all’essenziale. Il vero contributo che possiamo dare alla società e alla famiglia è innanzitutto il primato di Dio nella nostra vita personale, famigliare, comunitaria-confraternale all’interno delle nostre più ampie realtà ecclesiali.
Per richiamarvi a questo vorrei proporvi una immagine che ci dice come sia necessario continuamente guardare a Cristo e al mistero della sua Pasqua nonostante il variare della società, della famiglia, della cultura in generale. Noi non dobbiamo, a mio avviso, preoccuparci troppo di questi cambiamenti. Dobbiamo conoscerli ma non spaventarci più di tanto anche perché Dio che annunciamo e testimoniano non muta, ed essendo Creatore è presente e rintracciabile nel cuore di ogni creatura, anche di quella che non sa, non conosce, che sembra tanto lontana da Lui.
Piuttosto dobbiamo cambiare il nostro modo di presentare le convinzioni cristiane ed anche il modo di trattare le persone che forse hanno provocato anche in un recente passato un allontanamento da Dio e dalla fede di cui ci lamentiamo ora. Dobbiamo, forse fare un po’ di autocritica. Pensiamo ad esempio come abbiamo proposto la fede, la vocazione alla famiglia ai giovani, come li abbiamo preparati al matrimonio, come li abbiamo seguiti dopo la celebrazione e quando hanno avuto i primi figli, ecc.
E’ certamente una autocritica che dobbiamo fare noi Pastori innanzitutto ma che forse dobbiamo fare anche come comunità cristiana e anche come Confraternite.
Per proporre la fede, per dare il primato a Dio nella società e nella famiglia vorrei proporvi l’immagine dell’episodio di relazione tra Filippo e l’eunuco di cui in At 8,35. Cosa accadde? Che Filippo salì sul carro con l’eunuco: entrò nella sua vita e “Annunciò a lui Gesù”. E’ proprio questo che dobbiamo fare con le famiglie e nella società, tra noi, con i nostri giovani. Già Gregorio di Nazianzo parlando ai preti della sua Diocesi li interrogava: “Voi mi chiedete come mai i giovani dopo il catecumenato si allontanano dalla comunità e forse dalla fede? Ma è naturale! E’ come nella caccia alla volpe. Avete presente la caccia alla volpe? La volpe corre, mentre i cani corrono a perdifiato dietro la volpe. A un certo punto, però, alcuni cani, stremati dalla fatica, si fermano e tornano indietro. Altri cani, invece, continuano a correre, fino alla fine, fino a che la volpe non è stata stanata. Perché?  Perché i cani che non hanno visto la volpe, prima o poi si stancano, e rinunciano, mentre quei pochi che hanno avuto la fortuna di vedere la volpe proseguono la loro corsa fino in fondo. Ecco il problema: far vedere la volpe ai giovani, far conoscere loro Gesù – questa è la cosa più importante”.
Certamente costa fatica, chiede la relazione, la vicinanza, il tempo… ma porta frutto! E non solo con i giovani ma anche con la famiglia e con la società.

E questa vicinanza deve essere non per indottrinare ma per dialogare, per far dire all’uomo, alla famiglia, alla società attraverso il ricordo, la pietà popolare che esprime la fede in Dio, che “forse è vero”. Di fronte al problema di Dio rimane sempre il problema dell’incredulità, del “forse però è vero”. Scriveva a tal proposito un tal Joseph Ratzinger nella sua opera “Introduzione al cristianesimo”: “Tanto il credente quanto l’incredulo, ognuno a modo suo, condividono dubbio e fede, sempre beninteso che non cerchino di sfuggire a se stessi e alla verità della loro esistenza. Nessuno può sfuggire completamente al dubbio, ma nemmeno alla fede; per l’uno la fede si rende presente contro il dubbio, per l’altro attraverso il dubbio e sotto forma di dubbio. E’ tipico della stessa impostazione fondamentale del destino umano, il fatto di poter trovare l’assetto definitivo dell’esistenza in questa interminabile rivalità tra dubbio e fede, tra tentazione e certezza. E chissà mai che proprio il dubbio, il quale preserva tanto l’uno quanto l’altro dalla chiusura nel proprio isolazionismo, non divenga d’ora in poi la sede per intavolare delle conversazioni, per scambiare e comunicarsi qualche idea. Il credente deve aprirsi al dubbioso, per il dubbioso il dialogare con il credente resta – nonostante tutto – una provocazione permanente.

Il vivere di fede e di carità degli appartenenti alle Confraternite e dei Confrati insieme, con le loro famiglie, e verso le loro famiglie intendendo i figli, i nipoti… verso la società ma con questa capacità di interloquire rende efficace la nostra testimonianza.

E come  fare a dare tale testimonianza?

In parte ve l’ho già detto: dialogare, interloquire alla pari… ma vorrei aggiungere altre due sottolineature.

Una che il Papa spesso riprende anche parlando della pietà popolare spesso rimasta delegata più agli anziani che ai giovani. Il Papa crede profondamente che la fede si trasmette da una generazione all’altra. Ma come?

Francesco, a questo proposito, cita spesso una frase del Profeta Gioele (Gl 3,1):
“1 Dopo questo,
io effonderò il mio spirito
sopra ogni uomo
e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie;
i vostri anziani faranno sogni,
i vostri giovani avranno visioni”.

Occorre che anziani e giovani siano a contatto: ecco la forza della pietà popolare, delle Confraternite dove occorre logicamente evangelicità, ecclesialità e missionarietà ma attraverso la narrazione dei sogni da parte degli anziani. In genere gli anziani sognano la giovinezza, e come nella loro giovinezza la fede abbia dato forma alla loro vita, alle loro scelte. E se nel dialogo con i giovani loro narreranno i loro sogni: sogni di passato ma anche di futuro, i giovani diverranno profeti, capaci di vedere il loro futuro con Dio e di incidere a loro volta nella storia, sapranno vedere il loro futuro, sapranno continuare a sperare, a vedere un mondo nuovo che lo Spirito sa creare anche oggi. Sapranno anche oggi grazie ai sogni degli anziani narrati a loro, vedere un futuro per la loro famiglia e per la società di cui sono i maggiori protagonisti.

Ma – la domanda era: come?… come dare testimonianza? Come contribuire con la testimonianza al cambiamento?

C’è un altro metodo che chiamerei quello che oserei definire dello “smartphone”.
Ormai tutti lo possediamo. Chi lo acquista riceve una piccola scatola: uno strumento complicatissimo non viene più venduto con un lungo e noioso libretto di istruzioni; solo un piccolo foglietto con poche (e in quel momento inutili) raccomandazioni. Come si usa? Si impara: ognuno deve arrangiarsi provando e riprovando. Al massimo si può chiedere a chi ne sa qualcosa. Di più ancora: le case di costruzione dei dispositivi, oggi offrono a tutti la possibilità di migliorare il prodotto suggerendone nuove applicazioni. E così il dispositivo serve anche a telefonare (per i più giovani in minima parte) però può fare anche fotografie, permette di essere permanentemente connessi con gli altri, di ricevere notizie e di fare un’infinità di altre cose. I giovani non accettano più nulla a scatola chiusa ma sanno farsi coinvolgere se si sentono veramente ingaggiati, se percepiscono che la posta in gioco non è qualche forma religiosa esterna ma l’umano, la loro stessa esistenza. Qui sono interessati! E allora continuiamo a testimoniare così Gesù ma anche l’umano che Lui è capace di illuminare. Impariamo a saper suscitare dubbi, domande, affinchè con le nostre risposte non solo di fede ma anche di risposta alla felicità umana che la famiglia e la società cercano sappiano trovare risposte da noi e tramite noi per la gioia del loro futuro di famiglie e di società.

In questa prospettiva ritengo poi ancora necessarie due vie.

Una è quella della carità.
Una carità concreta e coinvolgente anche i nostri giovani, le famiglie, gli anziani.
Tra i “sogni” degli anziani c’è sicuramente anche quello di un mondo forse più povero ma assai solidale. Realizziamo iniziative di carità sempre per dare il primato a Dio ma realizziamole! Non mi dilungo su questo tema tanto importante perché sono certo che il Prof. Michele Cascavilla, nella sua relazione saprà dirci di più anche a partire da testimonianza concrete di come le Confraternite si sono mobilitate in occasioni delle recenti calamità che hanno colpito l’Italia centrale.

E infine il lavoro.
E’ una delle grandi emergenze italiane. Alla fine del 2016 i giovani italiani disoccupati era circa 3 milioni, circa il 40% del totale dei giovani. Tra questi i neet (giovani che non studiano, non lavorano, non si formano) sono circa 1,5 milioni. Il lavoro poi è precario e spesso irregolare. Qui occorre che ci impegnamo a contribuire con i nostri beni, i nostri terreni spesso incolti… se ogni Confraternita creasse qualche posto di lavoro, piccola imprenditoria per qualcuno dei propri giovani contribuirebbe sicuramente a far crescere la nostra società, la famiglia e anche il senso stesso del nostro essere: uomini e donne con un glorioso passato ma anche con un futuro che se costruiremo nella legalità, nella creatività e insieme potrà contribuire con il primato di Dio che in Gesù Cristo ci aiuta a comprendere l’uomo a svelare l’uomo all’uomo e a conoscere la sua altissima vocazione e dignità, con la relazione e la testimonianza che si fa concretezza caritativa e lavorativa, un futuro – dicevo – che ha ancora molto da dire e dare alla società e alla famiglia oggi.
Vi ringrazio per la pazienza che avete avuto nel sentirmi e camminiamo, abbiamo ancora molto da fare, da dare, da lavorare!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *